INNO ALL'OPEROINOMANE
News
Domenica 20 Giugno 2010 20:06
Un  articolo  che  è  una  confessione, uno sfogo  e  al  tempo  stesso  un  manifesto. Bravo  Alberto: te  lo  dice  un Operoinomane  d.o.c.! 



LA STAMPA -  Spettacoli
20/06/2010 - STORIA DI UNA PASSIONE

Io, l'operoinomane

Helen Williams nel Flauto Magico

Quando il melodramma diventa droga: autobiografia di un acuto-dipendente

ALBERTO MATTIOLI

Sono un tossicodipendente. Solo che invece di droga mi faccio di opera lirica. Come assurdità, siamo lì: l'opera, diceva George Bernard Show, è quel genere di spettacolo «dove un uomo viene pugnalato e, invece di morire, canta». Però l'eroina, per me, è Violetta. O Isotta. E poi l'opera fa meno male, come dimostra il fatto che domenica scorsa, con una Valchiria così così alla Bastille di Parigi, sono arrivato a quota mille recite viste e in condizioni fisiche tutto sommato discrete (su quelle mentali non scommetterei). Anzi ho già visto anche l'opera numero 1.001, La donna del lago di Rossini, lunedì sempre a Parigi, però al Palais Garnier. Ovvio che, come per tutte le pazzie serie, anche in questa ci sia del metodo. Per cui non solo ho passato gran parte della vita adulta ad ascoltare dei tizi che cantano in calzamaglia, ma ho anche annotato tutti gli spettacoli con data, città, teatro, titolo, autore e interpreti (il bilancio lo vedete sopra). Del resto, una passione o è irragionevole o è soltanto un hobby. Il vero melomane, dice Enrico Stinchelli, è colui che, udendo una donna cantare in bagno, si avvicina al buco della serratura e vi pone l'orecchio.

Mettersi all'opera
Come sempre nell'epica, gli inizi sono leggendari. Nel senso che venni portato a ascoltare la prima opera da bambinetto. Dormii tutto il tempo e, dal fatto che l'unica cosa che ricordo sono due ciccioni che urlavano davanti a una ghigliottina, doveva essere l'Andrea Chénier, titolo che continuo a detestare anche adesso (e senza più riuscire a dormirci sopra). La svolta venne dopo. Correva l'anno 1984, io ne avevo 15, decisi di riprovare e dal loggione del teatro della mia città, Modena, sentii un Trovatore che, a rileggere il cast (Hayashi-Cossotto-Grilli-Cassis) non doveva essere neanche malvagio. Erano ancora i tempi delle baracconate di tradizione: ricordo sei comparse in armatura che entravano da sinistra con l'alabarda, attraversavano il palcoscenico, cambiavano arma e rientravano da destra con la balestra. Mi piacque tutto moltissimo, anche le balestre; da allora, basta una settimana senza la mia dose di opera per scatenare la crisi d'astinenza. I miei genitori, per nulla melomani, erano scettici ma, pensando che fosse meno pericoloso farsi di Verdi che di cocaina, non mi ostacolarono. Gliene sono ancora grato. Oggi in scena le alabarde non si portano più, in compenso per noi operoinomani itineranti ci sono Internet, i treni ad alta velocità e i voli low cost. Anche se capita ancora di salire a tarda notte su regionali sgangherati con l'unica compagnia dei ferrovieri che hanno finito di lavorare e delle prostitute che ci vanno.

L'opera globale
Il mondo è un enorme palcoscenico. Tutto fa opera, dagli sfarzi della Scala o del San Carlo (il più bel teatro del pianeta) alla Péniche Opéra di Parigi, che si chiama così perché ha sede in una péniche, una chiatta di quelle da quadro impressionista: l'opera la si fa sottobordo per cinquanta spettatori, accompagnata solo dal piano. La colombe di Gounod fu piacevolissima. A New York si passava dal Met all'Amato Opera, oggi purtroppo chiusa, che altro non era che la cantina della casa di mister Amato: lì si ascoltavano Verdi e Puccini miniaturizzati, insieme a emigrati italiani che parlavano con l'accento del Padrino (però erano ottimi i cookies della signora Amato, venduti negli intervalli per arrotondare). Quando alla Traviata a Mumbai, Violetta moriva su un lettone noleggiato a Bollywood, indiano che più indiano non si può: Bombay, o cara...

Fuori la lingua
Ormai la regola è che l'opera si rappresenti in lingua originale. Ma restano le eccezioni. Una Maria Stuarda in inglese ci può anche stare, una Forza del destino in ungherese (sentita a Budapest) è più difficile da digerire. Spettacolari un recente Elisir d'amore in piemontese a Casale e un Flauto magico a Pechino con le parti cantate nell'originale tedesco e quelle recitate tradotte in inglese: una follia, però più comprensibile dei battibecchi fra Berlusconi e Prodi, lì per un vertice Ue-Cina che il giornale di allora mi aveva mandato a seguire...

Sublime e ridicolo
Fra l'uno e l'altro non c'è che un passo nella vita normale, molto meno all'opera. Lo capii a un Trovatore al Maggio, protagonista Luciano Pavarotti con la sciatica. Il tenorissimo cantò benissimo la «pira» (abbassata di mezzo tono, quindi l'atteso do diventò un si naturale) ma alla fine, quando il giovane eroe deve precipitarsi a salvare la madre che laggiù nella pianura sta per salire al rogo, si vide Manrico zoppicante che usciva di scena appoggiandosi allo spadone come a una gruccia. Azucena aveva tutto il tempo di finire flambé. Poi ci fu il tenore che ebbe una colica fra il primo e il secondo atto di un Tristano al Liceu: già a Barcellona si inizia tardi, poi Wagner è lungo, si doveva aspettare il Tristano di riserva, finì che uscimmo a riveder le stelle alle tre e mezzo e, o meraviglia, le Ramblas erano affollate e i bar aperti. Che pena invece all'Opera di Tirana (ma ero lì per un concerto), nell'Albania appena decomunistizzata. Chiesi del guardaroba e la maschera rispose: non c'è. E io: come mai? Lui: qui il cappotto lo tengono tutti, non c'è il riscaldamento.

I mille ricordi amati
Così, i primi a venire in mente: Marilyn Horne-Orlando alla Fenice mentre in corazza e cimiero gorgheggia l'aria di bravura con una lancia in mano (il teatro era esauritissimo, entrai spacciandomi per il postino che doveva consegnare un telegramma). Il silenzio concentrato, emozionato, spaventoso dopo che Claudio Abbado aveva appoggiato la bacchetta dopo le ultime note del Wozzeck a Salisburgo: poi uno timidamente inizò a battere le mani, un altro si unì, e alla fine continuammo tutti per venti minuti, ma molti con gli occhi lucidi. Ian Storey e Waltraud Meier alla Scala nel Tristano secondo Chéreau: hanno appena bevuto il filtro d'amore, si guardano per un momento interminabile mentre risuona la più bella melodia mai scritta, poi lui all'improvviso si butta per terra e bacia l'orlo del mantello di lei. E William Matteuzzi, Enzo Dara e «Ruggito» Raimondi scatenati nel terzetto dei «pappataci» dell'Italiana in Algeri a Bologna, con la gente impazzita che piangeva dal ridere. E sembrava di essere finiti dentro una di quelle pagine raggianti di Stendhal che ci fanno innamorare di Rossini come se n'era innamorato lui.

Domani è un'altra opera
Altro che diabolico, perseverare è troppo umano. Vediamo l'agenda: martedì a Londra c'è Annabella Netrebko che canta Manon e il 29 a Dortmund santa Cecilia delle colorature (la Bartoli, insomma) che debutta Norma. La curiosità di vedere cosa c'è dietro il prossimo sipario resta più forte di tutto.

 
ITALIA PALLONARA 1)
News
Domenica 20 Giugno 2010 18:21

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Continuando a giocare così finiremo per vincere il Campionato del mondo, come già è avvenuto e ancora avverrà.

C'è una singolare, molto  ben  conosciuta  'italianità' che contraddistingue il nostro Calcio: è il Calcio dei furbetti, degli svelti, dei marpioni, dei piagnoni . Più giochiamo male e più andiamo avanti: l'arte dell'arrangiarsi elevata a livelli infiniti. Insensibili alle critiche, i giocatori della Nazionale traggono forza da queste come Anteo dalla Madre Terra. Maestri nell'arte della Cabala sappiamo bene che più ci si lamenta più si ottiene, più si dondola sconsolati la testa (“Ci buttano fuori! “, “Perderemo”...) più lo Stellone giunge in nostro aiuto , perché Dio è sicuramente italiano.

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Alcune memorabili sentenze captate oggi, durante e dopo Italia-Nuova Zelanda. Ne  sono  autori  alcuni illuminati  telecronisti:

 


"Dobbiamo giocare palla a terra, altrimenti non andiamo avanti..."
( :shock: da quando in qua si gioca con la palla in aria?)

"Dobbiamo segnare un altro gol, altrimenti non vinciamo (frase pronunciata sull'1 a 1)

"Dobbiamo tirare in porta, almeno provarci...forse così sblocchiamo il risultato (ma se non si tira in porta....DOVE si dovrebbe tirare?)

"Non siamo lucidi, non siamo concentrati sulla palla.... (chissà a cosa pensano mentre giocano!?)

" Abbiamo giocato la nostra partita (!!!!) , siamo stati sfortunati, con più fortuna portavamo a casa un altro risultato!" (LIPPI, il Genio)lippi

....a questo punto Michele Cucuzza E' Baudelaire!

 
SINGING'N THE ARENA
Recensioni
Domenica 20 Giugno 2010 17:38

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Tra una goccia e l'altra, prima dell'uragano che interrompe definitivamente lo spettacolo, l'Aida va in scena all'Arena di Verona con i suoi primi due atti ed è un grande successo per tutti, nonostante i ritardi causati dalle pessime condizioni atmosferiche. Arena gremita , un grande maestro sul podio, Daniel Oren, in grado di assicurare una resa orchestrale solidissima e finalmente una gamma dinamica varia e attenta al segno scritto, garanzìa fondamentale per la riuscita del capolavoro verdiano.

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Amarilli Nizza è un'Aida giovanile , dolce e suadente nelle mezzevoci ma capace di scatti ferini nel grande duetto con Amneris, che è Dolora Zaijch , voce tagliente e profonda , di formidabile temperamento. Radames è Piero Giuliacci, che si presenta un po' nervoso nel terribile “Celeste Aida” tanto da fallire il si bemolle finale, ma si comprende la difficoltà di attaccare quest'aria con pioggia, umidità a livelli assurdi e con un'ora di ritardo rispetto l'orario previsto.

              PIERO_GIULIACCI_I_ATTO

Ambrogio Maestri come Amonasro fa un ingresso autorevolissimo: voce tonante e di bellissimo smalto, fraseggio autorevole oltre alla ben nota imponenza scenica.

Non benissimo i due bassi, meglio Enrico Iori come Re mentre Carlo Striuli era evidentemente afflitto dall'umidità imperante. Molto bene invece il Messaggero di Enzo Peroni, di bel colore e perfetto fraseggio: la parte è piccola ma è scopertissima, si sente subito se a cantarla è un modesto comprimario o un vocalista di prima scelta, qui eravamo alla serie A, lo stesso valga per la precisa Sacerdotessa di Nicoletta Curiel.

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Lo spettacolo di Zeffirelli assicura una splendida visione d'assieme, con la grande Piramide d'oro che domina il centro del palcoscenico e via via si trasforma, cambiando i suoi colori, aprendo varchi, come un gigantesco caleidoscopio. Magistrale il movimento delle masse, secondo un ordine classico , elegante. La regìa lascia gli artisti liberi di agire secondo il loro istinto; certo, io ricordo a Busseto (in un contesto totalmente diverso)  una scatenata, stupenda Kate Aldrich come Amneris e un Radames forse non adattissimo vocalmente, Scott Piper, ma magnifico attore. All'Arena c'è una maggior staticità e la tendenza è quella di bloccarsi, pericolosissima in Aida, che conta 8 quadri e 4 atti: il rischio è quello di congelare l'azione , cosa che di fatto è avvenuta ieri sera (consideriamo anche il palcoscenico bagnato, quindi maggiori pericoli di cadute). Tuttavia è auspicabile che nelle recite successive vi sia un maggior dinamismo con conseguente aumento di credibilità nello sviluppo drammatico della vicenda.  Stupendi  i  costumi  e  il  gioco  delle  luci, molto applauditi i  Balletti.

 
ALL'ARENA DI VERONA RISPLENDE LA TURANDOT FIRMATA ZEFFIRELLI
Recensioni
Sabato 19 Giugno 2010 14:19

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“Al tempo delle favole” dice il libretto di Adami e Simoni collocando la “Turandot” in un preciso contesto, immaginifico e arcano e così fa Puccini, regalando al mondo l'ultimo suo capolavoro e lasciandolo incompiuto, per il sopraggiungere della morte.

L'Arena di Verona, grazie al doveroso e per molti versi “storico” omaggio a Franco Zeffirelli, inaugura la sua 88ma stagione con uno spettacolo che riporta appunto al tempo delle favole.Il coup-de-théatre giunge puntuale al cambio scena che separa il terzetto dei dignitari dall'entrata dell'Imperatore Altoum: dal buio, tetro e inquietante in cui si muove il popolo alla luce di un palazzo interamente d'oro, stupendo negli infiniti dettagli e reso ancor più magico dall'invasione di costumi brillanti, in cui dominano le ancelle in rosa tenue.

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La tavolozza dei colori usati da Zeffirelli è pari soltanto a quella orchestrale inventata da Puccini, ed ecco che ancora una volta si realizza il perfetto connubio tra ciò che è scritto in partitura e ciò che si vede sulla scena, fatto ormai sempre più raro e desueto per chi normalmente frequenta il melodramma. “Amo l' opera e cerco dal più profondo di portare avanti una linea consegnataria della grande tradizione lirica italiana, ma oggi talvolta si favoriscono solo categorie di bassa cultura, facendoci perdere l'occasione per far valere la forza artistica italiana.(...) anch'io posso fare delle cose stupide, senza senso, come usa oggi in maniera spudorata. Sarebbe facilissimo.” Così dice Zeffirelli in una intervista rilasciata a Gianni Villani e riportata nel programma di sala. Mi pare colga perfettamente il nodo centrale della questione . Ma la miglior risposta viene fornita ancora una volta dai fatti:la nuova produzione areniana di Turandot è di rara, preziosa bellezza e quando la reggia di Altoum risplende  d'oro nel finale, con Calaf in abiti regali e lo sventolìo festoso di un palcoscenico ricco e lussuoso, come l'Opera deve essere, vien da gridare: FINALMENTE! Questa è l'Opera che amiamo e che sa farsi amare!

Menzionerei i costumi di Emi Wanda, come tra i più belli mai visti, gli ottimi movimenti coreografici creati da Maria Grazia Garofoli e il disegno luci, perfetto, creato da Paolo Mazzon.

La parte musicale era affidata alla concertazione di Giuliano Carella, precisa, attentissima e meticolosa ma proprio per questo eccesso di pignolerìa un po' avara di quegli abbandoni lirici che pur Puccini pretende, soprattutto quando si tratta di cantare assieme ai cantanti. Sono certo che nelle recite successive alla Prima vi saranno dei sostanziali e continui miglioramenti in questo senso e che il maestro Carella, passata la lecita tensione della Prima, si abbandonerà di più. Da ricordare che la Turandot proposta in Arena, per volere del regista, si è chiusa con la parte finale del lungo  duetto completato da Alfano, quasi una stretta festosa  e positiva dopo la trenodìa funebre di Liù. Non è stato un male: il duetto di Alfano non è un capolavoro musicale e il suo taglio ha risparmiato alla Guleghina (non in forma) note e difficoltà aggiuntive.

Bisogna tener conto anche della inaugurazione di un nuovo sistema di amplificazione per nulla invasivo , che ha creato un buon equilibrio tra buca e palcoscenico, sfruttando le migliori doti dei cantanti e rispettandone le diverse potenzialità.

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Il Calaf di Marco Berti si impone sul resto del cast sia per la quantità sia per la qualità del suo canto: ho già apprezzato altre volte la classica bellezza del timbro all'italiana (rotondo, pieno, di nitida e scolpita dizione) e la facilità con cui la voce affronta una gamma di almeno due ottave piene (compreso il non facile do scoperto di “Ti voglio ardente d'amor” nel II atto). Questo notevolissimo cantante, ormai affermatosi in tutto il mondo, deve solo fare attenzione a non “pressare” gli acuti, a non gonfiarli oltre misura: di voce ne ha a venderne e non occorre volerne creare di più con spinte o forzature pericolose. In questo senso il famoso “Vincerò” c'è stato, ma affrontato con un po' troppa paura e tirato via senza quella libertà felice che rendeva memorabili le esecuzioni di Pavarotti (non tutte, ma moltissime). Cito Pavarotti perché Berti ha persino più volume del mitico collega e un colore che può avvicinarlo al grande Luciano.

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Maria Guleghina, si è detto, non è apparsa in buona forma e ha deluso come Principessa di gelo, probabilmente per stanchezza . In varie occasioni i suoi pianissimi sono sembrati privi del necessario appoggio e spesso di intonazione incerta, mentre non appena la voce (pur bella) cercava la sostanza si avvertiva una fastidiosa oscillazione.

Brava invece Tamar Iveri come Liù, una voce di bel colore e un'artista espressiva, senza essere mai leziosa né incline ai facili effetti strappa-applauso.

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Morbido e nobile il canto del basso Carlo Cigni , preciso Antonello Ceron come Imperatore (senza la fastidiosa voce querula di molti interpreti fin troppo senescenti), ottimo il terzetto dei dignitari in cui spiccavano i tenori Casalin e Orsolini lasciando un po' in ombra il baritono (Ping), Filippo Bettoschi.

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Un plauso al maestro del Coro , Andreoli, e alla sua numerosa compagine che, prima della recita, hanno intonato l'Inno d'Italia per protestare contro il decreto Bondi sulla riforma delle Fondazioni lirico-sinfoniche.

Al termine della rappresentazione tutto il pubblico in piedi per salutare l'ingresso, commovente, di Franco Zeffirelli sulla sedia a rotelle, al centro della platea. Mi è subito venuto in mente il grande mentore, Luchino Visconti, anche lui indomito ma minato nel fisico, provando il Don Carlos (meraviglioso) all'Opera di Roma. Sono gli ultimi grandi miti di una forma di spettacolo mitica e grandiosa per sua stessa definizione, è giusta quindi la cornice di Verona, che ospita il più grande teatro all'aperto del mondo.

 


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