NORMA, chi la vuole cotta, chi la vuole cruda
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Lunedì 24 Aprile 2023 12:19

 

 

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Non fatevi ingannare dal titolo: non parlo della pur popolarissima “pasta alla Norma” ma del capolavoro composto da Vincenzo Bellini, che negli ultimi tempi sta conoscendo una sorta di grande revival , probabilmente sulla scia del centenario della nascita di Maria Callas. La Callas, a detta di chiunque (salvo qualche inevitabile detrattore) è stata senz'altro l’interprete iconica di questo ruolo ed è davvero singolare che non esita alcuna ripresa video dell’opera completa, atta a testimoniare questo importante lascito artistico. Qualche raro filmato amatoriale mostra immagini sbiadite e poco significative: da quanto appresi in casa di un famoso collezionista callasiano, ex dipendente della Emi, questa documentazione in realtà esisterebbe ma rinserrata gelosamente nelle case di alcuni fanatici o fatta sparire ad hoc, per lasciare la “Divina” avvolta nella Sua leggenda. Così anche la Fedora della Scala, il Don Carlo e molte altre note performances.

Torniamo a Norma e in particolare modo al tipo di vocalità che occorre per risolvere nel migliore dei modi possibili la complessità del personaggio. Per far ciò dobbiamo prima di tutto fare un salto all’indietro e cercare di capire chi fu la prima destinataria di questo ruolo e cioè Giuditta Pasta, probabilmente la più celebrata cantante del primo Ottocento assieme a Maria Malibran.

La Pasta esordì giovanissima (come accadeva all’epoca per tutte le cantanti d’Opera) , esibendosi in operine poco conosciute e spesso in parti da “contralto” (la più grave delle voci femminili). Qui abbiamo un primo segnale: con ogni probabilità la diciassettenne Pasta, con appena due anni di studio, non aveva una estensione da autentico soprano e la voce risultava, a detta dei musicografi del tempo, “debole e poco intonata”. I titoli si susseguirono con crescente frequenza, opere di Paer, Pacini, Pavesi, Cimarosa , poi Rossini, Mercadante : compiuti i 24 anni la voce della Pasta si era notevolmente irrobustita, guadagnando terreno anche in campo internazionale. Londra, Parigi, Vienna, Napoli e infine Milano, la meta agognata di tutti. Nel 1829 , trentaduenne, trionfò nella Semiramide di Rossini e l’anno dopo fu la volta di Anna Bolena di Donizetti, composta espressamente per Lei, ed eseguita con strepitoso successo al Teatro Carcano di Milano e successivamente a Londra. Nel 1831 la svolta: prima Sonnambula e quindi Norma, il 26 dicembre , alla Scala. Appena 4 anni più tardi si registrò la fine di quella voce : le recite di Norma si rivelarono una catastrofe , con frequenti incrinature nella voce, affaticamento, opacità, insomma i tristi presagi di un ritiro precoce dalla scene. Impietose le critiche nei Suoi confronti e le proteste del pubblico.

Com’era la voce della Pasta? Dischi ovviamente non ne abbiamo ma possiamo dedurre che la scarsa omogeneità primigenia e i limiti di uno studio troppo rapido vennero compensati da quello che gli Autori adoravano: temperamento, doti attoriali, capacità di incarnare la classica “tragédienne” protoromantica. Bellini definì il Suo stile interpretativo “sublime tragico” e questo la dice lunga su moltissime cose. I critici delle prime recite di Norma specificarono che la Pasta si lasciava andare a momenti di autentico pianto durante l’esecuzione musicale, tali da commuovere il pubblico. Immaginiamo cosa possa essere stata l’esecuzione di “teneri figli” , per esempio. Ma la Pasta sapeva anche esplodere in maniera che oggi diremmo “verista” nel finale del primo atto “vanne sì, mi lascia indegno” e non si fa fatica a ipotizzare anche urla, esagitazioni e isterìe  che, se da un lato sgomentano gli attuali cultori del Belcanto puro, dall’altro esaltavano gli Autori, Bellini soprattutto, che procedevano verso una sperimentazione diversa e nuova, anche rivoluzionaria, rispetto ai loro predecessori.

Ma un altro dato viene fuori in maniera inconfutabile: la Pasta non fu un soprano bensì fu un contralto d’agilità, non più di un mezzosoprano .Ma non , si badi bene, un mezzosoprano da Amneris, Eboli, Santuzza o Dalilah..bensì un mezzosoprano da opere di Cimarosa, Paer, Pacini e Rossini, la differenza è sostanziale.

Le tessiture acute la mettevano sempre in difficoltà e basta verificare lo spartito originale di Norma per constatare che tutte le puntature acute ai do, ai re (finale atto primo) o addirittura ai mi bemolli (duetto con Pollione del secondo atto)  furono aggiunte dalle altre interpreti , prima tra tutte la Sutherland e Beverly Sills. L’aria “Casta Diva” originariamente composta in sol maggiore dovette essere trasposta dallo stesso Bellini al fa maggiore, un tono sotto, date le difficoltà della Pasta a sostenere la tessitura sopranile. La Pasta, inoltre, aveva la tendenza perniciosa a calare di intonazione, cosa oggi imperdonabile.

Resta in piedi una domanda fondamentale: come poté la Pasta cantare Amina e Norma nella stessa stagione? Secondo i nostri criteri, viziati da quasi due secoli di storia della vocalità, Amina è un soprano leggero e Norma un soprano drammatico , due vocalità in antitesi! La risposta è molto semplice e deduttiva: adattando ai propri mezzi vocali le rispettive parti. Per esempio abbassando le tonalità originariamente previste e non avventurandosi su acuti e men che mai sopracuti. L’opera era un abito che poteva anzi, doveva, essere perfettamente adattato alle qualità dell’interprete di turno. Amina COME Norma quindi o Norma COME Amina, quel che era importante non si concentrava sulla tonalità e sulla nota più o meno estesa ma sul fraseggio, sulla verità dell’interprete, sull’agilità certo ma soprattutto sulla capacità di saper incarnare con grande espressività il personaggio. Una sorta di “verismo belcantistico”  che fa pendant con la nota affermazione di Renata Scotto : “nell’Opera TUTTO è Belcanto”.

Fatte queste premesse mi pare più che logico consentire a moltissime Norme di cimentarsi in questo ruolo: dal soprano solitamente impiegato per Aida, Tosca e Ballo in maschera, magari pure Turandot tipo Callas, al soprano lirico con agilità tipo Cerquetti, Caballé, al soprano da Traviata e Manon, tipo Rebeka, al soprano da Gilda e Lucia, tipo Dessay, Gruberova, Rancatore oppure al mezzosoprano belcantista  tout court , tipo Cecilia Bartoli. Norma per tutte, insomma.



 

 
FiLOLUCIA di LAMMERMOOR ALLA SCALA
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Sabato 15 Aprile 2023 07:27

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La Lucia di Lammermoor presentata in Scala dal Maestro Chailly , sulla base dell’edizione critica approntata da Gabriele Dotto e Roger Parker, segna un punto di svolta molto importante nella lunga storia interpretativa di questo capolavoro. Ascoltando l’opera in diretta si è avuta netta la sensazione che ,per la prima volta, tutto scorresse come un fiume in piena, senza cedimenti e senza soprattutto quelle continue pause che troppo di frequente hanno trasformato l’opera in una sequenza di “numeri” da applaudire per forza di inerzia, con tagli micidiali e a volte -oso dire- criminali.

Cos’era la Lucia di Lammermoor prima dello scorso 13 aprile? Dobbiamo essere molto franchi e mettere da parte ogni residuo di vociomania : le Lucie tradizionali NON erano la Lucia di Donizetti ma una para esibizione canora , nel migliore dei casi l’attesa spasmodica della “pazzia” con la gara tra voce e flauto, nel peggiore dei casi un patchwork rattoppato alla meglio , così…tanto per dire che la si era eseguita. Intendiamoci: la Lucia “in pillole” l’abbiamo ascoltata con un Karajan paradisiaco assieme a Callas e Di Stefano, con Serafin e la Sutherland in stato di grazia, con Schippers e la inarrivabile coppia Sills-Bergonzi, con Kraus, Pavarotti, Abbado con la Scotto e con una infinità di gloriosi interpreti, ognuno per il suo verso storico.  Il grande Gianni Raimondi , altro Edgardo di riferimento (splendido alla Scala con Abbado), ricordava in una intervista come il pubblico bolognese esplodeva in un irrefrenabile applauso quando Beniamino Gigli in Lucia attaccava all’unisono con il soprano “ Trucidatemi e pronubo al rito sia lo scempio d’un core tradito”. Altri tempi ,si dirà, tempi in cui il Divo assoluto era il cantante e poco importava se l’opera rappresentata era decurtata di intere pagine, tanto da stravolgere l’assetto generale dell’Autore e la sua visionarietà . Quasi sempre i grandi compositori sono profetici e tendono ad anticipare ciò che verrà dopo di loro:  in questo Lucia non fa eccezione, essendo il classico capolavoro protoromantico, il punto di passaggio dal Belcanto puro al dramma tragico di Verdi, che -se posso azzardare- inventò il “Belcanto verista” (si pensi a Traviata, a Rigoletto, a Macbeth per arrivare a Otello).

Il maestro Chailly segue una linea molto precisa e coerente: in ogni opera da Lui diretta la volontà precisa è quella di presentare un lavoro fluido e teso drammaticamente, con una scrupolosa ricerca del dettaglio, dei colori e delle dinamiche, con l’abolizione dei tagli tradizionali. Questo tipo di impostazione è stato applicato alla Lucia come a Tosca, Andrea Chénier , indifferentemente: il rispetto assoluto delle volontà chiaramente espresse dagli Autori. Anche  Riccardo Muti aveva avviato questo tipo di impostazione ma ,diversamente da Chailly , con l’abolizione degli acuti non scritti ,per una forma singolare di personale avversione alla puntatura. Qui entriamo in un campo minato , poiché il lavoro compiuto sulle edizioni critiche non contempla la cosiddetta “filologia della tradizione” , non essendovi documenti ufficiali e prove - dicono i revisori- di quanto gli Autori ammettessero e approvassero tali arbitri. Questo non è del tutto vero. Cadenze, acuti aggiunti , variazioni apposte dai cantanti non solo erano tollerate ma addirittura richieste . E’ nota e di pubblico dominio la lettera in cui Verdi chiese all’amico Donizetti di scrivere di proprio pugno le puntature per gli interpreti di Ernani a Vienna :

«Mi fu grata sorpresa leggere la di lei lettera scritta a Pedroni in cui gentilmente mi offre di assistere alle prove del mio Ernani. Non esito punto ad accettare la cortese offerta con la massima riconoscenza, certo che alle mie note non può derivarne che utile grande, dal momento che Donizetti degna di prendersene pensiero. Posso così sperare che sarà interpretato lo spirito musicale di quella composizione. Pregola volersi occupare sì della direzione generale, come delle puntature che potranno abbisognare, specialmente nella parte di Ferretti (il protagonista). A Lei, signor cavaliere, non farò complimenti. Ella è nel picciol numero degli uomini che hanno davvero ingegno e non abbisognano di una lode individuale. Il favore che Ella mi comparte è troppo distinto perché possa dubitare della mia gratitudine.”

Non solo: esistono svariate incisioni di cantanti tardo ottocenteschi, allievi e custodi delle tradizioni dei cantanti dei tempi di Donizetti. Sono esecuzioni stravaganti e risibili, siamo d’accordo, ma le cadenze di Marcella Sembrich, Emma Eames, Maria Galvany, Luisa Tetrazzini & C.  testimoniano di tradizioni ben precise, la “filologia della tradizione” quindi esiste e andrebbe studiata a fondo, non liquidata con due battute come si legge nei preamboli delle varie edizioni critiche.

In sostanza il successo dell’opera dipendeva dalla bravura degli interpreti e contribuivano a ciò le puntature , cioè gli acuti aggiunti, e le cadenze , le variazioni, tutto ciò che potevi aggiungersi come atto “di bravura” al dettato del compositore. Lui consenziente. I punti di corona sulle pause orchestrali che precedono la fine di un’aria o la ripresa di una cabaletta, collocati ad hoc, sono la prova degli arbitrii consentiti dagli Autori e che gli interpreti sarebbero tenuti a rispettare. Non esiste nel Belcanto un da capo che non DEBBA essere variato: meglio tagliarlo se l’interprete non ce la fa.

Fa benissimo quindi il maestro Chailly a consentire le variazioni nel da capo della cabaletta di Lucia (“Quando rapito in estasi”) , il mi bemolle sopracuto al termine della scena della pazzia, o i si naturali inseriti dal tenore nella scena della torre, o il sol al termine della cabaletta d’entrata del baritono. E’ pura filologia della tradizione, quella che i revisori -gioco forza- non possono applicare. Nell’edizione scaligera di Lucia sono state però omesse delle note scritte: il mi bemolle sopracuto del duetto “Verranno a te sull’aure” , scritto per Duprez, è stato omesso da Florez e così l’”oppure” (in effetti facoltativo) dell’aria finale “Tu che a Dio” , che prevede un re bemolle sopracuto opzionale.Se non vado errato solo Franco Bonisolli e di recente Xavier Camarena hanno eseguito questa nota dal vivo.

C’è poi la questione delle tonalità….e qui il discorso si fa ancor più spinoso. Per la prima interprete , Fanny Tacchinardi, Donizetti compose la prima aria “Regnava nel silenzio” e successiva cabaletta rispettivamente in Mib maggiore e Lab maggiore, che invece vengono tradizionalmente trasportate mezzo tono sotto .Parimenti il duetto con Enrico , nell'autografo in è La maggiore, mentre di solito (quasi sempre) viene abbassato di un tono.Infine la "scena della pazzia" (tra l’altro rimpiazzata da una serie di cadenze con flauto solista) nell’autografo è  in Fa maggiore mentre l’edizione Ricordi comunemente adottata abbassa al Mi bemolle maggiore. Cosa accade con i trasporti? Accade che la vocalità lunare, trascesa e angelicata di Lucia perde questi connotati e assume toni più lirici e scuri di colore, per consentire ai soprani di sfogarsi con do, re e mi bemolli sopracuti (quando riescono) invece dei perigliosi e quasi impossibili fa nella pazzia (la sola Mariella Devia osò alla Rai eseguire le tonalità originali e chiudere con il fa sopracuto (tra l’altro inserendo una nuova cadenza scritta da Franco Mannino). Diciamo , a onor del vero, che gli interpreti scaligeri di due giorni fa non sono riusciti a eseguire i sopracuti , eccezion fatta per il mi bemolle (comunque abbassato) con cui la Oropesa ha chiuso la scena della pazzia.

 

 
100 anni di Zeffirelli, PAGLIACCI all'OPERA
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Lunedì 13 Marzo 2023 11:05

 

 

 

 

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Per celebrare i 100 anni dalla nascita di Franco Zeffirelli , uno dei più illustri uomini di Teatro mai esistiti, il Teatro dell’Opera di Roma decide di mettere nuovamente in scena “Pagliacci” di Leoncavallo , unica opera in cui il grande regista “attualizzò” la vicenda , trasponendo l’azione dalla Calabria fine Ottocento a una non meglio definita città del Sud Italia di oggi.

La scena si presenta come la facciata di una grande palazzina di periferia (non proprio un “basso napoletano” ma quasi) , con tante finestre e balconi in piena vista , rievocando un pò il celebre film di Hitchcock “La finestra sul cortile”. In quel cortile si vede e accade di tutto: una folla di figuranti che di volta in volta sono giocolieri, poliziotti, ragazzi del muretto, prostitute e prostituti, “femminielli”, popolani, insomma una folla felliniana adunatasi in questa pubblica piazza, in attesa che arrivi la roulotte di Canio.

Nella “commedia” che segue (dopo un ampio, assurdo intervallo che spezza lo spettacolo in due) su questa facciata calano dei pannelli raffiguranti tante sagome e faccioni di pagliaccio, a coprire il caseggiato e a circondare la scena vera e propria in cui si svolge la pantomima.

Non è , a mio avviso, la migliore versione zeffirelliana dei Pagliacci , assai meglio la produzione precedente con la sopraelevata o comunque gli spettacoli visti a Verona (per non dire del film, che resta insuperabile).

 

La celebrazione romana è stata affidata a uno staff capitanato da Stefano Trespidi, con i costumi di Raimonda Gaetani e le luci di Vinicio Cheli, che in qualche modo riprendevano lo spettacolo primigenio, rispettandone alcuni clichés ma non evitandone la confusione: troppo affollata e isterica l’apertura di sipario, con troppe “educande” (le voci bianche e la Scuola di Danza dell’Opera) in libera uscita e non ben coordinate tra loro, mescolate a un assembramento troppo eterogeneo, con la netta sensazione che fossero tutti lì adunati per far numero. L’abilità di Zeffirelli, pur nella quantità spropositata dei partecipanti , era quella di definire ognuno dei personaggi con delle precise azioni drammatiche, come avviene in un film: qui c’era solo un gran casino a cielo aperto.

A prescindere da ciò svariati errori: Silvio e Nedda che pomiciano in pubblica piazza, su un materasso posto all’uopo (?!) ,Canio che entra condotto da Tonio e all’inizio guarda all’indietro attendendo il punto musicale in cui li scopre…una ingenuità assoluta. Poi li vede (“AH!”) e invece di saltare addosso a Silvio, compie un ridicolo giro tra muretto e discesa, per consentire all’amante di scapparsene dietro le quinte (?!) , altra ingenuità. Nedda che lava il bambino con tutti i pantaloni addosso, nemmeno in India!? Senza spogliarlo del tutto, ma almeno fatelo accovacciare nella tinozza senza che si vedano quelle brache. L’uccisione di Silvio pessima, come spessissimo accade: con il baritono che attende, sereno, di essere accoltellato da Canio…e molte altre lepidezze che tolgono esattamente il verismo al Verismo.

 

Sul piano musicale Daniel Oren ha assicurato una direzione sapiente e molto solida, come Suo consueto, aiutando sia il magnifico Coro del Teatro dell’Opera (guidato da Ciro Visco) sia i solisti di Canto. Una prestazione di assoluta eccellenza.

Canio era il tenore americano Brian Jadge, voce sicura soprattutto nel registro alto, un pò avara di colori , penalizzata da una posizione acustica (soprattutto all’inizio) molto difficile.

Nedda il soprano Nino Machaidze, che abbiamo ritrovato un pò stanca vocalmente ma molto impegnata sotto il profilo scenico.

Trionfatore della serata il baritono mongolo Amartushvin Enkhbat, che merita qualche notazione a parte. I suoi pregi : una rara omogeneità dal basso all’acuto (poderosi il la bemolle e il sol del Prologo) e un giusto gioco di colori nell’arco di tutta la recita, ma se proprio si deve cercare il pelo nell’uovo un che di “bituminoso” nei centri , tale da rendere un pò difettosa la pronuncia. La voce è già scura di natura, perché scurirla di più?

Beppe , l’ottimo Matteo Falcier, gli interventi di Fabio Tinalli e Giuseppe Ruggiero.

Ho lasciato per ultimo Silvio che aveva , sì, la prestanza fisica tale da giustificare il tradimento di Nedda (anche se Canio, stavolta, non era da disprezzare) ma la cui vocalità presenta alcuni problemi da risolvere e non risultava all’altezza degli altri interpreti.

Grande successo per tutti, teatro gremito. Notizia last minute: termina l’Era Vlad, con le dimissioni due mesi prima della scadenza del mandato dello storico direttore artistico.

 
Il "caso Venezi" e le Nozze di Figaro, la folle journée
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Mercoledì 01 Marzo 2023 19:20

 

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Il “caso Venezi”: così si parla di Beatrice Venezi, musicista di professione, direttore d’orchestra e da poco istituzionalmente impegnata presso il Ministero della Cultura italiano come consigliere per la Musica, oggetto di una campagna diffamatoria senza precedenti dopo il cambio di marcia politico avvenuto a seguito delle elezioni dello scorso settembre. A scorrere molto velocemente la Rete, tra blogger assetati di sangue , Selvagge e selvaggine, assalitori, leoni e tigrotti da tastiera e più spesso da pastiera, oppositori e oliatori di professione o improvvisati, la Venezi è un bersaglio ideale soprattutto per il suo “outing” politico, fieramente e orgogliosamente schierato a Destra, cioè agli antipodi della tradizionale collocazione del mondo culturale.

 

Siamo in Italia e come ci ricordò Eugenio Scalfari, fino agli ultimi istanti della sua vita baluardo della Sinistra: “Si dice che sono stato fascista, monarchico, socialista, azionista, comunista, demitiano... Ed il bello è che è tutto vero.”  Non c’è gioco più perverso e disgustoso che  cercare di demolire il proprio avversario non contestando o anche contrastando le sue idee con le proprie, argomentandole, ma cercando di distruggerlo , gettando una cattiva luce su tutto ciò dove può essere attaccato. Leggendo i vari articoli al veleno pubblicati negli ultimi mesi, guarda caso dopo la nomina della Venezi a consigliere del Ministro, ravvisiamo ovunque quel maldestro e scoperto tentativo: parlar male di chi si è impegnato per migliorare sé stesso, senza preoccuparsi invece di migliorare sé stessi. Se poi è una donna, bella, giovane che ardisce salire su un podio per dirigere un’orchestra…apriti cielo: in barba alle quote rosa , alla parità dei sessi, alle cosiddette “pari opportunità” di cui si riempiono la bocca proprio gli avversari politici, la Venezi viene additata al pubblico ludibrio e accusata di tutto: presenzialismo televisivo , la partecipazione al Festival di Sanremo (Benigni sì…la Venezi no?) , la pubblicità a uno shampoo (fatemi capire: Woody Allen o George Clooney possono…la Venezi no?  Pavarotti con il caffè….Domingo con la pasta sì..la Venezi no, verboten?), per arrivare al capolavoro finale, cercare di abbatterla come musicista e direttore d’orchestra, magari senza averla mai né ascoltata né vista. E su quest’ultimo aspetto che vorrei dire la mia, lasciando da parte le polemiche sterili di ordine politico (la Musica e l’Arte volano alto su ogni tessera di partito e su qualsiasi ideologia) .

Conobbi la Venezi a Torre del lago, io lavoravo alla regìa di Turandot di Puccini (nello splendido allestimento Frigerio / Squarciapino ), la Venezi debuttava nella difficile Turandot di Busoni, anche lì con un cast di giovani interpreti. Non era impresa facile: Busoni, eccelso pianista, fu un compositore brillante e dalla densa, a volte caleidoscopica orchestrazione, in cui la prevalenza del sinfonismo sulla consuetudine e le modalità della scrittura operistica vecchia maniera, rende la Turandot un intreccio assai fitto tra scherzo e dramma, come un gigantesco meccanismo a orologeria . La Venezi ne uscì benissimo, dimostrando tenuta ritmica, precisione e una dinamicità notevoli per una ragazza di appena 26 anni, riporto qui la recensione di Fabrizio Moschini su Operaclick (una delle rare firme “serie” che mi piace seguire nei suoi scritti) : “La bontà complessiva della produzione è però stata garantita dalla grazia con cui è stato confezionato l'allestimento, dall'affiatamento della compagnia, dalla preparazione del coro, destinatario di pagine importanti, ma soprattutto dalla precisione e pertinenza stilistica della bacchetta di Beatrice Venezi, vera sorpresa della serata. Lungi dal limitarsi a tenere timidamente assieme il tutto, la giovane e affascinante direttrice affronta questa Turandot con spavalda sicurezza, dosando per quanto possibile (ed adeguando all'acustica della sala) il turgore sonoro che la partitura prevede per l'orchestra, la quale da par suo risponde alle sollecitazioni del podio con una prestazione molto solida.”

Siamo nel 2016 , prima del “caso Venezi” e non posso che confermare le impressioni riportate dal recensore.

A Catania, in questi giorni, sta andando in scena una produzione di “Nozze di Figaro” di Mozart, un vero K2 esecutivo per chi conosce le diecimila trappole di questa straordinaria partitura. La Venezi è stata scritturata un anno e mezzo fa (quando la Meloni era ben lungi dall’assaporare le gioie del premierato, rinfreschiamo la memoria a qualche malpensante). Ho finito di ascoltare la registrazione della recita di ieri sera e , a parte qualche lieve inciampo assolutamente accettabile e comprensibile per uno spettacolo che non gode del mese di prove delle Fondazioni più ricche, ho potuto ritrovare tutte le caratteristiche che mi fecero apprezzare la Venezi  a Torre del lago: nitore orchestrale, tempi brillanti e dinamica varia, ritmo serrato ma non isterico, tali da rappresentare la “folle journée” del trio Beaumarchais-Da Ponte-Mozart. I tagli del “capro e la capretta” e dell’aria di Don Basilio non inficiano assolutamente l’andamento generale: essi sono dovuti essenzialmente ai costi aggiuntivi cioè agli straordinari lavorativi che avrebbero fatto saltare il budget del Bellini, che è un teatro di tradizione. I finali d’atto, soprattutto secondo e ultimo, sono risolti con grande perizia e seguendo i suggerimenti della drammaturgia, le voci non vengono mai sovrastate e gli interventi dei fiati e dei legni dell’Orchestra del Teatro Bellini (ottima in tutte le sue sezioni e va detto a chiare lettere) hanno dei momenti di grande virtuosisimo e di raro affiatamento. Si vede che hanno lavorato bene con il loro direttore d’orchestra, altrimenti il risultato sarebbe stato ben diverso. Le voci sono molto interessanti: Desirée Rancatore debutta come Contessa e , come si suol dire “la classe non è acqua” , le arie e i suoi interventi dimostrano il livello interpretativo raggiunto sia in termini di presenza vocale che di fraseggio, stilisticamente impeccabile; il  basso Gabriele Sagona è un Figaro elegante e raffinato, di bel timbro e di tecnica controllata; Luca Bruno un Conte autorevole e spigliato nei recitativi; Cristin Arsenova una Susanna nitida e musicalissima; Sabrina Messina un Cherubino dal bellissimo timbro e molto presente (la cosiddetta “voce teatrale”, che passa l’orchestra) ; Luciano Leoni un Don Bartolo protervo e autorevole; Federica Giansanti come Marcellina, Saverio Pugliese nella parte di Don Basilio (senza l’aria come abbiamo detto), completavano il cast Pietro Picone (Don Curzio) , Federica Foresta (Barbarina) e Alessandro Busi come Antonio. Undici recite tutte esaurite e quattro recite speciali per i bambini, illustrate da un attore, anch’esse a teatro pieno. Il direttore artistico, M.° Fabrizio Maria Carminati, è giustamente soddisfatto . Gli ho chiesto un parere (visto che è un bravissimo direttore d’orchestra, scuola Gavazzeni) sulla giovane collega, mi ha detto: “ E’ preparata, seria, in una parola : brava. Ha saputo lavorare bene con i professori di Catania, creando un clima molto collaborativo e disteso. Sono intenzionato a proporLe una nuova scrittura .”

 

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