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Sabato 12 Marzo 2022 22:10 |


Un oceano di applausi sigla l’esecuzione in forma di concerto della Turandot di Puccini a Roma, presso l’auditorium di Santa Cecilia, con acclamazioni per il maestro concertatore Antonio Pappano e i solisti di Canto.
Qui la locandina completa:
Orchestra, Coro e Voci Bianche dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia direttore Antonio Pappano
soprano Sondra Radvanovsky (Turandot) soprano Ermonela Jaho (Liù)
tenore Jonas Kaufmann (Calaf)
tenore Leonardo Cortellazzi (Altoum) tenore Gregory Bonfatti (Pang)
tenore Siyabonga Maqungo (Pong)
baritono Mattia Olivieri (Ping) basso Michele Pertusi (Timur)
baritono Michael Mofidian (Mandarino) tenore Francesco Toma (Principe di Persia) soprano Valentina Iannotta (Ancella I) soprano Rakhsha Ramezani Melami (Ancella II)
in forma di concerto
concerto fuori abbonamento
Gli interpreti hanno lavorato bene con il Maestro e si è sentito: tutti musicalmente eccezionali, prodighi di sfumature e immedesimati totalmente con i caratteri dei vari personaggi. Bisogna tuttavia fare dei distinguo che il futuro laser-disc correggerà rendendo il tutto più omogeneo.
La voce che ha sbaragliato il campo, svettando vittoriosa su tutti , è stata quella del soprano statunitense Sondra Radvanovsky: quando ha aperto bocca Lei , lanciando strali squillantissimi , si sono tutti resi conto che non c’era partita persino per il superdivo Jonas Kaufmann. La Radvanovsky non ha solo una voce quantitativamente grande, tutta “avanti”, ma sa giocare sui pianissimi in maniera fantastica, come dimostrato da frasi memorabili quali “principessa Lou-Ling”, ava dolce e serena” o nella scena della tortura di Liù o nel prodigioso “ il suo nome è Amore” , nel finale , dove ha saputo sovrastare persino il crescendo degli ottoni.
Nell’aria d’entrata, giunta al fatidico do acutissimo di “Gli enigmi sono tre, la morte è una” si è praticamente “pappata” Kaufmann in un sol boccone, Lei tonante in sala, Lui con la bocca spalancata e gli occhi preoccupati. Quando hai un simile castigo di Dio accanto c’è poco da fare.
Da parte sua non è che Kaufmann abbia sfigurato per questo suo debutto, anzi: la straordinaria Arte del fraseggiatore è venuta fuori nella prima aria, nella frase “Il mio nome non sai” cesellata come meglio non si poteva e in un Nessun dorma perfetto, da fuoriclasse. Per il duetto finale Pappano ha optato per la versione originale di Alfano , quella che Toscanini non eseguì alla Prima assoluta della Turandot. E’ Alfano non è Puccini, ma è anche giusto che sia così visto che l’Autore, ormai sul letto di morte, non lasciò che poche indicazioni per il deutone che sigla l’opera (tra cui quel misterioso “vedi Tristano”, fonte di innumerevoli dibattiti). Questo finalone interminabile ha visto trionfare una solidissima Radvanovsky su uno stanco e nervoso Kaufmann, che ha persino scosso la testa un paio di volte, visibilmente insoddisfatto dalla propria resa vocale.
Bravissima Ermonela Jaho, molto calata nella parte, fin troppo tragédienne : splendidi i suoi pianissimi, non così eccezionali le salite a voce piena che denunciavano un timbro a tratti un pò aspro.
Il basso Michele Pertusi è stato come sempre molto elegante e raffinato, soprattutto nella scena della morte di Liù: mancava un pò di “ampleur” ma comunque un Timur degno dei Grandi.
Bene le 3 Maschere, con Mattia Olivieri come Ping superiore ai due tenori, uno dei quali identico a Biden.
Chiudo plaudendo ancora alla concertazione del Maestro Pappano, che ha saputo tenere in equilibrio perfetto il tessuto “sinfonico” di Puccini ma anche il senso del Teatro, che non deve mancare mai. Unico neo: l'orchestra a tratti soverchiava le voci, l'unica a salvarsi è stata la Radvanovsky.Gli assoli dei professori di Santa Cecilia sono stati memorabili, a dimostrazione di un livello d’eccellenza che pone questo complesso ai vertici mondiali. Il Coro (compresi i ragazzi delle Voci bianche) istruito dal Maestro Piero Monti , ha sfoderato una gamma di colori e una compattezza che è raro trovare in qualsiasi Teatro : credo ne potrà uscire fuori un disco memorabile.
Pubblico osannante. |
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Mercoledì 08 Dicembre 2021 21:09 |

Lo spettacolo Macbeth che ha inaugurato la Scala ieri sera ha prodotto, ancora una volta, la prevista spaccatura tra un pubblico legato alle antiche esecuzioni e un pubblico nuovo, più disposto ad accettare le “novità”.
È sempre stato così , fin dai primi tempi del Teatro inteso come tale. Ma di quali “novità” stiamo realmente parlando?
Intanto torniamo all’etimo, al significato profondo del termine “novità” , che è parola derivante dal latino “novitas, -atis” e che indica la condizione di qualcosa che sia nuovo, cioè fatto o concepito o conosciuto per la prima volta. Nel campo teatrale qualcosa che sia presentato per la PRIMA volta.
Cosa c’è di realmente “nuovo” non solo nello spettacolo visto ieri sera ma in generale nelle “novità” degli ultimi venti, trenta, persino o quarant’anni e oltre?
Definite deliranti mezzo secolo fa, le regìe operistiche di Ken Russell o Bob Wilson proponevano esattamente i medesimi clichés che ritroviamo oggi e, ripeto, non solo in Livermore che è un abile metteur-en-scène “di maniera” , un classico diremmo, ma in una quantità impressionante di adepti del “Regie-Theater” alla tedesca. Ma ce li siamo dimenticati? Mimì che moriva di overdose 40 anni fa a Macerata? E quante Mimì abbiamo visto morire di overdose negli ultimi quarant’anni? Una pletora.
Gli ammennicoli o meglio gli ingredienti sono sempre gli stessi:
- 1. Decontestualizzazione storica (cambiare epoca e costumi)
- 2. Introdurre elementi che riconducano al nazi-fascismo (Nabucco= Hitler, Scarpia = Mussolini, Macbeth = un Tiranno)
- 3. Per I costumi preferire lunghi cappotti neri o grigio-verdi, stivaloni, frustini, donne in guêpière se procaci vamp (Dalilah, Carmen, Preziosilla) ma attenzione: in guêpiere anche Rigoletto , visto come “diverso”.
- 4. Elementi scenografici privilegiati, desunti dalla attualità: piscine, grattacieli, appartamenti , uffici, poltrone in pelle, sedie a rotelle.
- 5. Una autentica fissazione per cliniche, manicomi, case di cura, ospedali.
- 6. Idem come sopra per automobili, specchiere, a volte vagoni , yachts.
Potrei continuare , la lista comprende tutto ciò da cui siamo quotidianamente circondati.
In cosa consiste dunque la novità? In un catalogo Postal Market ? In una lista di prodotti di cui Amazon bombarda ogni pagina internet?
La regìa? Confusa oggi con la scenografia o con gli effetti tecnologici .
La domanda è: cosa ha a che vedere la geniale Manon Lescaut o la Sonnambula o la Traviata di Visconti , che era puro teatro di REGIA (quello sì!) con le regìe “moderne” dei Suoi successori? Nulla. Da una parte abbiamo o una regìa dall’altra abbiamo uno spettacolo, magari sfolgorante di luci, effetti e trovate, ma con i protagonisti c he devono comunque combattere con le note scritte da Verdi, Puccini, Rossini, Bellini, Wagner.
Eh già, perché poi c’è la musica.
Nelle regìe di Ponnelle era musicale anche la locandina, nella gran parte delle regìe finto-moderne la musica cozza con violenza contro ciò che avviene in scena, tanto che chiudendo gli occhi si ha l’impressione non soltanto di ascoltare ma di “sognare” uno spettacolo diverso. O di sperare che possa esserlo riaprendo gli occhi.
Purtroppo l’immagine è quella tragica della realtà , ed è assolutamente vero quello che ha detto Livermore parlando del suo Macbeth : “Quel Coro, quelle persone che si muovono in scena….siamo noi.” Il fatto è : vogliamo ritrovarci specchiati nel Macbeth di Verdi, come una manica di ossessi, inebetiti , sottomessi , imprigionati in una Matrix come in fondo siamo un pò tutti, soprattutto in questi tempi grami in cui una pandemia “misteriosa” ci ha ridotti a topi da laboratorio? Forse qualcuno vuole proprio questo , ma altri no.
Altri vogliono sognare e magari ritrovarsi in Teatro per emozionarsi dietro il tracciato perfetto delle musiche di Verdi, Puccini, Rossini, Wagner. Emozionarsi non vuol dire assistere al ripetersi di spettacoli vecchi, uno uguale all’altro , ma stupire di fronte alla musica e alla novità, quella vera data dalla magia del momento, dall’equilibrio assoluto tra la drammaturgia e la musica che vola alto su tutto e su tutti. Se non poniamo al centro dei nostri pensieri il rispetto per la musica e per i valori di un testo teatrale , al di là dell’ “effetto” o di fissazioni personali che son spesso ossessioni, non ci libereremo mai e soprattutto non lasceremo volare in alto l’Opera d’Arte .
In molti casi si rischia il vilipendio della stessa. Alla faccia di una inesistente e irrealizzata “novità”. |
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Mercoledì 08 Dicembre 2021 08:50 |


Riporto qui di seguito qualche appunto, preso al volo durante il Macbeth scaligero di ieri sera.
Scene obiettivamente belle, costose e importanti ma senza un significato preciso. Cos’è esattamente? Matrix, un manicomio? La Standa invasa da impiegati in vena di sciopero? Va bene così, è "moderno".
L’ascensore va su e giù, non può far altro , via vai delle comparse.
Appare la Netrebko, sfumazzante. Voce gonfiata oltre misura, a tratti sembra un tenore. Nell’aria d’entrata, affaticata, si ode una microstecca e il pubblico fa “buuu” alla fine, ricevendone da Lei in cambio una espressione a metà strada tra la stizza e il “chi se ne frega”.
Luca Salsi si agita morchioso, cerca di creare accenti e colori aggiuntivi ma basterebbero sulla carta quelli previsti da Verdi. Nel 1 atto è vestito come Don Pasquale, in vète -de-chambre, l’ascensore continua a fare su e giù. Brutti i costumi, al punto da sembrare la Netrebko una domatrice del Circo Orfei , quasi la leggendaria Moira.
La Netrebko prende troppi fiati, a volte si ode la presa di fiato al pari della nota musicale, effetto fastidiosissimo.
Abdrazakov il migliore, ha classe , fraseggia con gusto, la voce è chiara ma ben emessa.
Lo stesso il tenore Meli, che chiude benissimo la sua prima entrata.
L’aria “La luce langue” viene eseguita dalla Netrebko in maniera verista, con clamorose note di petto che nel registro più grave si spengono nel nulla: è in fondo una Susanna che finge di cantare da soprano drammatico. Diciamo pure una SUPER- Susanna .
Nel III atto il Coro assume definitivamente le sue movenze manicomiali. Il regista spiega in Tv e in Radio che quel Coro siamo tutti noi….in effetti viviamo in un manicomio a cielo aperto, ha perfettamente ragione a rappresentarci come una manica di dementi.
Arrivano i Ballabili , splendidamente diretti da Chailly: buona l’idea di rimpiazzare il classico Corpo di Ballo dai cantanti stessi, anche se l’apparizione di Banco, ormai defunto è un pò fuori luogo. La Netrebko, novella Salomé, partecipa come può oggi alle danze e lo fa con il massimo impegno ma con effetto un pò triste. Sono lontani i tempi degli sfrenati balletti durante “Meine Lippen” , non resta che l’ombra di quella scatenata silfide. Mi commuovo nel vederla così, c’è un che di Sabba infernale.
Salsi cerca di interpretare e lo fa con lena e impegno, ma la voce suona spesso chiusa tra naso e gola, motivo per cui i pochi acuti riservati a Macbeth suonano ovattati.
Tentativo di "scopata" di ascensore tra Lady e il marito, non ben riuscito: sensualità ZERO, parevano due rinoceronti.
La scena delle apparizioni è una seduta spiritica , buona intuizione di Livermore: Salsi un pò troppo sospiroso , la frase più bella dell’opera “Ah, che non hai tu vita” non ha l’efficacia dei Taddei, dei Bruson e dei Nucci.
La Netrebko si riscatta sul Sonnambulismo e riguadagna punti risolvendo sul puro lirismo.
Meli trionfa nella grande aria di Macduff, surclassando il secondo tenore nella cabaletta .
Finale con Coro un pò stanco per tutta la ginnastica effettuata nei quattro atti .
Applausi per tutti, fischi e contestazioni (quindi successo pieno) per la regia .
Arrivederci e grazie. |
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Domenica 22 Agosto 2021 20:16 |

Pesaro 2021 . Juan Diego Florez , il più grande tenore belcantista dei nostri tempi, festeggia i 25 anni dal debutto a Pesaro e lo fa da par suo, esibendo la consueta forma vocale che è il felice connubio tra tecnica e stile.
Il programma è, ça va sans dire, interamente rossiniano e circondato da alcuni ottimi colleghi Florez va a coronare un quarto di secolo all’insegna della grandezza .
Quello che poteva e secondo me doveva essere un assoluto trionfo è in assai inficiato dalla parte protocollare , con le mascherine che appaiono e scompaiono a seconda dei casi, tristissimo orpello di questo 2021 che ci affretteremo a dimenticare il più presto possibile. Un piccolo inciso per non essere frainteso: chi scrive fa uso delle mascherine sanitarie da oltre 20 anni, utilizzate per viaggi in aereo e in treno o per non diffondere raffreddori e influenze varie, quindi non sono contrario, anzi . Quello che a mio avviso è insopportabile è la confusione italiana (degna di un finale primo di Italiana in Algeri) , per cui a tutt’oggi non si sa nulla di certo sulle cure, sui vaccini, sul virus stesso ma si assiste quotidianamente a una oscena passerella di scienziati televisivi e dibattiti che dicono tutto e il contrario di tutto. Vorrei che questo concetto fosse chiaro, molto chiaro, perché la baruffa tra no- e pro- genera grottesche sceneggiate da una parte e dall’altra, oltre a non risolvere nulla sotto il profilo sanitario.
Ciò detto il plauso va tutto a Juan Diego Florez che ha eseguito da par suo la seconda aria di Idreno dalla Semiramide, con do diesis che erano folgori oltre alla fitta coloratura, e alcuni duetti e concertati dal suo repertorio d’elezione: Comte Ory, Matilde di Shabran, Viaggio a Reims. Per i suoi 25 anni a Pesaro avremmo desiderato un paio di arie in più …ma non si può avere tutto.
Al suo fianco hanno brillato soprattutto Giorgio Caoduro, magnifico baritono di agilità nella difficile aria tratta dalla Gazzetta, e Pietro Spagnoli, perfetto nell’aria di Don Profondo dal Viaggio a Reims. Entrambi superlativi.
Modesto il contributo del tenore Sergey Romanovsky che pur superando gli scogli della tessitura grave è naufragato nell’aria di Pirro dall’Ermione, steccando quasi tutti gli acuti. Peccato.
Modesta anche la vocina esile di Marina Monzò che in tutti i suoi interventi ha svolto un compito molto scolastico e in alcuni casi insufficiente. Brava la Pluda nei suoi precisi interventi e gli altri solisti di contorno.
Orchestra e Coro guidati da un giovane preciso , Michele Spotti, laddove però non basta solo la precisione ma occorre una verve più partecipe e soprattutto la scelta e il dosaggio dei colori nell’orchestra : la Sinfonia di Semiramide non può essere come quella dell’Italiana, allegra e cinguettante , ci vuole una differenziazione netta tra un’opera buffa e un’opera seria, altrimenti -come si dice a Roma: “è un cavolo e tutt’uno”.
Pubblico gelido all’inizio, come purtroppo spesso succede (ci si va a divertire con la paura addosso dei vari TG MORTE) ma poi via via più caloroso, grazie all’esecuzione di alcuni brani trascinanti. Chiusura un pò scontata, senza bis, con il Guglielmo Tell, fine delle trasmissioni.
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