LE AMARE VERITA' DI CERONETTI E IL FUNERALE DELL'OPERA
Mercoledì 15 Dicembre 2010 16:09
Se la Scala chiude, che male c'è?
 
 

di GUIDO CERONETTI

 

                                                                     ceronetti

Questa forma di teatro, il melodramma, l’Opera lirica, ha concluso il suo arco a metà del secolo scorso; è destinata a perdersi, è ormai un puro evento d’obbligo, ma di scarso significato. La musica invece è eterna, il teatro è eterno (di eternità per noi misurabili, che non valgono in aeternum). Ma anche nella musica per carnefici di lager c’è un soffio di eternità che vince il male; anche negli allestimenti di disperazione del Gulag c’è il soffio di eternità del teatro. Questo solo conta.

Il cartellone della Scala è, sia pure bellissimo, già un animale impagliato. Anche gli altri cartelloni... Che bisogno c’è di una stagione d’Opera al Regio di Torino? Di quelle voraci cavallette musicali dell’Arena di Verona? Non chiamiamo «cultura» un evento turistico estivo, costosamente mondano, con pizza finale di mezzanotte! La Fenice ha voluto morire, gioiello dell’epoca rivoluzionaria; ma era dal suo nome destinata a risorgere: potrà vivere di concerti. Si potrebbe lasciar vivere il Regio di Parma, dare una mano al festival rossiniano di Pesaro: Verdi e Rossini bastano, sono glorie, ricordi, e un Figaro qua e uno là fanno circensi di allegria.

Ma se con un bilancio divoratore della Scala la saggezza dello Stato (mai ci fosse) potesse restaurare degnamente Pompei, non esiterei un momento a dar tutto agli scavi e a proteggerli dall’incuria e dalla sporcizia. Un altro teatro d’Opera restaurato, anzi rifatto con genialità ammirevole è il Carlo Felice di Genova, ma con spesa molto minore può ospitare qualsiasi altro degno spettacolo.

L’Opera, come il cinema, vixit. Il suo illanguidimento progressivo è inevitabile.

Uno sprecasoldi di genio fu il più grande dei registi che lavorarono alla Scala. Non è nei miei ricordi, ero troppo giovane, ma credo alle testimonianze: una data memorabile fu quando Visconti, il 28 maggio 1955, creò con Maria Callas e Carlo Maria Giulini la sua versione della Traviata. Ce l’ho tuttora, per intero, nel vinile. La Callas fu la Voce dell’Opera della sua epoca, purtroppo obbligata allo stupro dell’imbecillità dei libretti, di cui non se ne salva uno solo. Per poter tollerare Traviata (che fin dal titolo contiene un’idiozia moralistica) bisogna non sapere nulla della trama, essere giapponesi o kazaki digiuni completamente di locuzioni italiane. Quello sciagurato Francesco Maria Piave! La stupidità concentrata nelle parole dell’Andante del vecchio Germont con l’esultante finale di Dio che esaudisce il suo voto di criminale ruffiano: è vero che la musica riscatta tutto, ma genialità e soldi per simili nefandezze fumettistiche sono ali imbrattate di petrolio.

Vixit, l’Opera, trionfalmente, nel secolo XIX; con Puccini e Boito, o Pizzetti, rantola; con Menotti è uno zombi. Bayreuth non avrebbe dovuto sopravvivere a Goebbels.

Nel XVIII l’Opera è puro svago, il suo passo è leggero. Ma l’Ottocento è sotto un segno progressivamente cupo, la moda è costrittiva e triste, il mistero musicale soccombe al tempo ed è inutile nascondercelo, il trionfo operistico è sempre più il dispiegarsi funesto del piacere per mezzo della sofferenza, richiama stuoli di sadomasochisti, le ideologie, l’antisemitismo, il marxismo, il wagnerismo, il freudismo, sono caserme in marcia. Nella Tetralogia non è tanto il Quattro a prevalere, ma la tetra-ggine che la ravvolge nel termine italiano. Quale cultura, se non necrofila, può rappresentare la ripresa, a costi vertiginosi, di una massiccia sequela di colpi in testa come La Valchiria? I capi nazisti, uno più sadomasochista dell’altro, celebravano con l’Opera wagneriana un culto di Kalì travestito da pellegrini cristiani e un Venerdì Santo delle regioni infere. Quell’immenso Incantesimo del Parsifal uccide letteralmente le nostre limitate capacità di liberare, di riscattare l’anima dalle sommersioni nella materia.

Il pubblico che va alla Scala la sera del 7 dicembre ad immobilizzarsi durante quattro o cinque ore, è impossibile immaginarlo spinto da motivi di elevazione spirituale (uso il vecchio termine del pensiero assassinato, col quale sguazzo meglio che se dico culturale). I motivi sono di vanità pura, esibizione di scollature e pettinature, significare presenza. E per questo i violini si agitano, le grandi bacchette sollevano ondate... Ma sulle facce la noia stampa, in un crescendo di afflizioni, le sue impronte d’irresistibile sbadiglio.

Tutto falso, tutto vento che ha fame.

Immancabili, sempre, le dimostrazioni politiche di chi viene apposta per lavorare all’esterno con le urla e i cartelli... Stavolta la materia infiammabile era desunta da disagi di congiuntura... o di università... ci sono poche varianti... ma la novità è stata l’assunzione da parte di un grande Direttore come Barenboim, prima dello spettacolo, della retorica piagnistea dei tagli alle sovvenzioni di Stato. Non mi pare sia stato di buon gusto recitare l’articolo Nove in presenza di Napolitano che la Carta la sa a memoria, più disposto dal suo palco ad applaudire la noia sgorgante dalla scena che a subire l’incongruità di un articolo che l’Italia aggira, frega, irride dal 1947.

Non è certo stato un gesto di cortesia, da parte del Maestro! E temo l’abbia fatto per fingere solidarietà con la piazza e di beccarsi così un’ovazione del tutto separata dai propri meriti di grande artista. Il pubblico pinguino e delle schiene nude sarebbe stato lui degno di applauso, se fosse rimasto in composto glaciale silenzio. Indigesta sempre è la verità.

È amaro pensarlo ma: se la Scala chiude, che male c’è?

                                      baratro

COMMENTO  DI  ENRICO STINCHELLI:

 Premesso  che  su  moltissimi  punti  sono  d'accordo  con Guido  Ceronetti : da  una mente  colta  e  raffinata  ogni  riflessione, sia  pure  provocatoria, dura  e  a  tratti incomprensibile  obbliga a  meditare e  a  leggere  con estrema  attenzione.

Sono  tanti  gli spunti  che  offre   questo sorprendente  articolo, al  di là  delle  semplicistiche  condanne  che  un titolo  totalmente  inadeguato  determinano  in un lettore  superficiale. Perché  al  termine  dei suoi  pensieri  Ceronetti  dice  "è amaro  pensarlo...." e  quell'amarezza  la  stiamo condividendo  tutti, amanti  dell'Opera o  detrattori  della  medesima.

Non  è  amaro constatare, anno dopo anno,  un costante declino  del  "sistema-Opera" , fino agli eclatanti  casi  proposti dal  Carlo Felice  di  Genova  o  dal  Lirico  di  Cagliari, subissati  da  debiti e  da  bilanci  disastrati, tali  da  portare  alla bancarotta?

Non è  amaro  verificare  che  l'Opera  in Italia  non ha  più  una  sua  visibilità, essendo bandìta  da  ogni  educazione  domestica  , da  ogni palinsesto televisivo, da  ogni  realtà  quotidiana?

Non è  amaro  lo spettacolo  offerto  da  un teatro semivuoto  con titoli  popolarissimi,  come Traviata, Tosca, Butterfly? 

Ceronetti  descrive  in modo  spietato  ma  elegante il  felliniano declino  dell'Opera,  vista  come una  signora  piena di rughe e malandata, impennacchiata  con  gli abiti  dei  tempi  migliori, ma  patetica nei suoi  rituali stantii  e  superati. Se la  prende  con   i  libretti  obsoleti  e  a  volte  improponibili,  se la  prende  con il pubblico annoiato e sbadigliante, con gli spettacoli all'aperto  dell'Arena  di Verona  e  persino  con i  dopo-teatro a  base  di  pizza, se  la  prende  con Wagner  e  con  il wagnerismo , evocando  Goebbels  e le  marce  naziste. Ceronetti non risparmia  poi Barenboim  e  il  suo  discorsetto  popolustico  ante-Prima, biasimando  la  lettura  dell'art.9  al  Presidente  Napolitano  che , in effetti,  quell'articolo  dovrebbe conoscerlo a memoria. Qui  , Ceronetti, mi trova  totalmente  d'accordo.

Insomma...perché  Ceronetti  scrive  tutto  ciò  e  cosa  suggerisce?

Non credo  che un uomo  colto  e  sensibile  possa  auspicare  la  chiusura  dei  teatri soltanto  perché  l'Opera, in sé,  sia  morta, finita. Ceronetti sa  benissimo  che, per  bella che sia,  la  musica  operistica va  ascoltata  in teatro  e  non  solo  su  un disco, per  cui  vive  in funzione  dei  luoghi  deputati alla  sua  esecuzione:  con scene, costumi, luci, coreografie, regìe, voci  e  suoni  dal  vivo. Ceronetti sa  anche  che  è  uno spettacolo  costoso, lussuoso, e  mi stupisce  che nella  sua disamina  non  abbia  minimamente menzionato  gli allestimenti  spaventosamente  orrendi  e   costosi  che  troppo  spesso, negli  ultimi  vent'anni,  ci  tocca  sopportare  e  sovvenzionare.

Una  cosa  è  evidente  e  la  registro da  attento cronista  (forse  il  primo ad  aver  segnalato anni  fa  l'inizio  di  un processo  declinante  e  sicuramente il primo ad  aver denunciato apertamente il  criminale  gioco  di malaffare  intorno alla  torta  operistica): si  parla  sempre  più  spesso al  negativo  di  questo nostro  formidabile  patrimonio.

Caro Ceronetti: io non so  se  Lei  sa  (suppongo di  sì) che  l'Italia  all'estero  viene venerata  per  la  sua  cucina,  per  le  bellezze  turistiche, per le città  d'Arte,  per la  moda...ma  soprattutto  per  l'Opera. Se  si  parla  un pò  italiano (lingua  per  il  resto  inutile) è  grazie  agli  "orrendi"  libretti  d'Opera  che  Lei  cita  in modo sprezzante.  E'   poco?  A  me non sembra.

Se  questo articolo  può  servire a  destare  qualche  coscienza  addormentata  o  anestetizzata...ben  venga. Le provocazioni servono solo  a  questo.