Recensioni
SALERNO: LE RAGIONI DI UN TEATRO MODELLO. TRIONFO di TOSCA AL VERDI.
Sabato 14 Maggio 2011 08:12

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In un precedente articolo, riferito ai “Puritani” di Bellini allestiti a Salerno, avevo sottolineato l'eccellenza di questo teatro , la bontà delle scelte artistiche, l'oculatezza della sua gestione. L'ho definito un “teatro modello” , un teatro da imitare.

Salerno è una città piuttosto piccola, adagiata su un golfo che pare protetto come un gioiello prezioso, con la costiera amalfitana che ricorda a tutti la sua incomparabile bellezza. La città è pulitissima, nemmeno l'ombra di un sacchetto di immondizia gettato per strada, ovunque cantieri aperti a dimostrazione di una precisa volontà di modernizzare e attivare il lavoro. Il nuovo molo accoglierà immense navi-crociera, sulla nuova grandissima piazza il Sindaco De Luca vuole allestire un'Aida mozzafiato. Le ragioni dell'eccellenza non sono soltanto queste: a gestire il teatro Verdi è stato chiamato uno dei più grandi maestri concertatori in attività, Daniel Oren, al quale è stata data carta bianca. Libero da condizionamenti sindacali o dagli infiniti lacci e laccetti che bloccano ogni iniziativa, Oren (e il suo collaboratore  Antonio Marzullo)  possono  agire a 360 gradi, convocando i maggiori interpreti mondiali, forte delle proprie  conoscenze e delle competenze. Pare di essere tornati ai tempi d'oro dei vari Badini, Cappelli, Siciliani, cioè dei grandi Sovrintendenti\Impresari che hanno reso memorabili le loro stagioni alla Scala, all'Arena di Verona, all'Accademia di S.Cecilia. Il miracolo è avvenuto a Salerno e ,fatto ancor più sintomatico, proprio nel momento più drammatico per le Fondazioni liriche italiane, afflitte dai deficit cronici e sull'orlo della bancarotta.

 

                            tosca__salerno_2_sindaco__Oren D.Oren e il  Sindaco  De  Luca


La “Tosca” di Puccini diretta da Oren e in scena in questi giorni giunge come ulteriore, grandiosa conferma di questo felice sistema, che -ripeto- andrebbe applicato senza “se” e senza “ma” per gli altri teatri in crisi. La scelta del cast è esemplare: Martina Serafin è Tosca, voce di magnifico smalto e artista dall'affascinante look, che domina in ogni frase la complessa partitura, con punte di straordinaria efficienza nei grandi duetti con Mario e nello scontro con il baromne Scarpia, nel II atto. Una Tosca completa, senza cedimenti, dagli acuti solidi e svettanti e morbidissima nei cantabili, padrona assoluta della scena, controllata negli scatti veristici e intensa nel fraseggio. A fianco della Serafin, da poco mamma e per la prima volta in scena dopo il parto, un Marcello Alvarez entusiasta e appassionato come suo solito, forse non proprio al 100% del suo stato di forma a causa di una allergìa . In casi simili è la tecnica a dover aiutare la vocalità e con quella Alvarez risolve e salta ogni ostacolo, rendendo ancor più umano e sofferto il suo personaggio: se i la naturali e i si bemolli (pur facili e sonori) non hanno lo squillo consueto, dall'altro canto aumentano i passaggi lirici e l'uso della mezzavoce, l'interprete diventa allora più intenso e paradossalmente ancor più convincente. Addirittura commovente la scena del III atto con Tosca, mai così vera e credibile.

                         tosca_salerno__serafin  Martina  Serafin  (Tosca)


Scarpia è il glorioso Renato Bruson che ,indomito, dopo 50 anni di carriera si presenta nuovamente in una parte intrapresa relativamente tardi, dopo gli esordi belcantistici. Bruson è uno Scarpia giustamente aristocratico e cinico,che trova le sue armi più efficaci e ancora affilatissime nei suoni legati, nelle frasi sussurrate e accennate (“dite, dov'è dunque Angelotti?”) , negli accenti sornioni o perfidi mai urlati.E' una fortissima caratterizzazione , molto ligia (tra l'altro) al dettato pucciniano che prevede il canto e non il grido. Certo, gli anni passanno e non si può pretendere da un baritono con mezzo secolo di palcoscenico sulle spalle la forma vocale di 30 anni fa. Ma è tale la personalità, il carisma dell'interprete, la disinvoltura scenica (persino nello spostare una sedia distrutta dalla rabbia “Ma fatelo tacere!” ) che ogni opacità vocale passa in secondo piano: ed è questo che distingue un vocalista da un fuoriclasse.

 

                                            tosca__salerno_bruson

Il resto del cast è composto da voci che è raro trovare riunite assieme: Angelo Nardinocchi, perfetto sagrestano, due bassi tonanti Striuli come Sciarrone (un lusso !) e Guerzoni che cantando Angelotti pare un Wotan , lo Spoletta classico di Angelo Casertano, che rinverdisce i fasti di Piero De Palma. Che bello ascoltare una Tosca con simili artisti, tutti a pari livello.

 

Daniel Oren si conferma come il più intenso ed esplosivo interprete attuale della “Tosca” , a livello mondiale. Non c'è dettaglio che sfugga o venga trascurato, non c'è battuta che venga eseguita senza mordente e l'attenzione spasmodica al canto, l'aiuto nella frasi più impervie , il respiro (che manca a tantissimi direttori d'orchestra, afflitti dalla Sindrome del Bersagliere). La tensione drammatica e la chiarezza del fraseggio imposte da Oren trascinano l'orchestra del Verdi e il magnifico Coro (istruito dal maestro Petrozziello) a un risultato ben superiore rispetto alle Tosche ascoltate di recente alla Scala e al Metropolitan di New York, tanto per fare qualche nome.

Lo spettacolo, firmato dal giovane Lorenzo Amato, non si discosta dalle didascalìe pucciniane (si sa che in Tosca la regìa è passo passo scritta dagli autori) e scorre così per la gioia di chi ama l'Opera di pura tradizione, che -di questi tempi- è anche una salutare boccata di ossigeno.

Trionfo al calor bianco per tutti, compreso il bravissimo pastorello.

 
RIGOLETTO AL MET, più che gobbo....zoppo!
Sabato 30 Aprile 2011 14:20

                                                 

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Spiace dover registrare un'altra brutta esecuzione verdiana presso il massimo teatro degli Stati Uniti, ma pare che al Met questa sia ormai una triste consuetudine. Stavolta a farne le spese è il “Rigoletto” , che pur presentava nomi abbastanza prestigiosi in locandina: il soprano Damrau come Gilda, il tenore Filianoti come Duca, il baritono Zeljko Lucic come Rigoletto, sul podio il maestro Fabio Luisi.

La  locandina:


Rigoletto - Zeljko Lucic
Gilda - Diana Damrau
Duke of Mantua - Giuseppe Filianoti
Maddalena - Nancy Fabiola Herrera
Sparafucile - Stefan Kocan
Monterone - Quinn Kelsey
Borsa - Mark Schowalter
Marullo - Joshua Benaim
Count Ceprano - Jeremy Galyon
Countess Ceprano - Corinne Winters (Debut)
Giovanna - Kathryn Day
Page - Patricia Steiner
Guard - Joseph Pariso

Conductor - Fabio Luisi

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Una punta di delusione viene proprio dalle scelte del concertatore, pur attento a seguire i cantanti e a imprimere il giusto piglio drammatico alla partitura, cade nel brutto vezzo di tagliuzzare la bella cadenza scritta da Verdi per il duetto “E' il sol dell'anima” e di staccare i tempi del duetto “Sì vendetta” invertendoli, senza rispettare la volontà verdiana indicata precisamente con i metronomi che sono : 1) allegro vivo (semiminima a 138) “Sì vendetta”, 2) Poco più mosso (semiminima 144) “Colpire te colpire il buffone saprà” . Quindi un attacco leggermente più lento per poter stringere alla fine. Luisi fa l'opposto (seguendo in questo molti maestri del dopo-Muti) : attacca velocissimo e deve rallentare alla fine. Peccato, perchè la concertazione di Luisi resta un esempio di eleganza e buon gusto, oltre alla capacità di saper respirare con i cantanti.

Il cast  zoppica  da tutte le parti, eccetto la perfetta Gilda della Damrau. Di Filianoti e della bellissima voce che tutti ricordiamo resta una pallida ombra e lo dico con sommo dispiacere: la gamma è forzata, compromessa da continue raucedini e note traballanti, i tentativi di addolcire o smorzare i suoni si trasformano in falsetti , ovunque si avverte la fatica. Ne risente ovviamente il fraseggio e la baldanza del personaggio, che dovrebbe affrontare la tessitura con levità e libertina nonchalance.In simili condizioni “la donna è mobile” pesa due tonnellate e così il Quartetto “Bella figlia dell'amore” .

 

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Il baritono Lucic è un orco, null'altro: Shrek a Mantova. Non una frase detta con umanità e morbidezza, tutto è pressato, gutturale, volgare (nel I atto cachinni della peggior specie : “E noi clementi invero perdonammo” , detto come potrebbe un Don Pasquale della più infima provincia), fino alle urla belluine che si odono sui sol e sul la bemolle che chiude il terzo atto.

Di medio livello il basso Stefan Kocan e il mezzosoprano Herrera, che eseguono senza infamia e senza lode la loro parte. Modestissimo il gruppo dei comprimari.

 

 
Al Maggio una superclassica AIDA
Sabato 30 Aprile 2011 08:46

 Aida  al  Maggio Musicale  \  2011

 

Mehta\ He, Berti, d'Intino, Maestri,Prestìa

 

regìa: F.Ozpetek


 

                                                                                                      

                                       aida2                                      aida_firenze_1                                                  

“Aida” con Zubin Mehta sul podio è il Classico dei Classici. L'opera di Verdi è la più rappresentata al mondo e il direttore d'orchestra indiano ha legato il suo nome in modo indissolubile a questo titolo, avendo al suo attivo una quantità considerevole di produzioni e una memorabile incisione in studio con la Nilsson, Corelli, Bumbry e Sereni per la Emi, considerata tra le migliori di tutta la storia del disco.

Il Maggio Musicale propone nel 2011 una versione assolutamente “classica” e tradizionale: oltre a Mehta, un cast di sicuro affidamento formato dalle migliori voci oggi in circolazione: il soprano Hui He come Aida, Marco Berti nella parte di Radames, Luciana d'Intino come Amneris, il baritono Ambrogio Maestri come Amonasro, il basso Giacomo Prestìa nei panni di Ramfis. Sono le voci che si ascoltano in quest'opera all'Arena di Verona, al Metropolitan di New York, alla Scala, al Covent Garden, in tutti i maggiori teatri del mondo. In aggiunta, a sorpresa (poiché il Maggio ci ha abituati da sempre alle “sperimentazioni” registiche) una messa in scena che più tradizionale e classica non si può, affidata a Ferzan Ozpetek, regista italo-turco abituato al cinema e alla televisione, che però disegna un'Aida assolutamente fedele ai luoghi, alle ore, ai tempi voluti dall'autore.

 

                           aida_firenze2       aida_firenze4

Tutto bene, dunque. Grande succeso di pubblico, tutti felici e contenti.

Eppure, per dovere di cronaca (e aggiungerei “di coscienza”), dobbiamo sottolineare qualche défaillance , alcune risibili altre più gravi.

Intanto, sottolineata l'ottima prova dell'orchestra e del Coro e la sicura bacchetta di Mehta, sempre vigile e attentissimo a ogni dettaglio, si deve tuttavia notare una concertazione più prudente e controllata che appassionata e veemente, come se il “conductor” fosse preoccupato maggiormente dal classico “far quadrare i conti” che dall'imprimere un taglio personale e analitico. Non è un rimprovero: ben venga un maestro che senza troppi grilli per la testa faccia arrivare in porto la nave, però siamo nel 2011 e di “Aide” se ne son sentite tante ma tante, dal vivo e in disco. Proprio facendo il viaggio verso Firenze, mi sono ripassato due storiche Aide del Covent Garden, una diretta da Beecham un'altra da Barbirolli, e in entrambi i casi si notava nettamente la “concertazione” che dominava sulla aurea routine di Mehta. Ciò emergeva soprattutto in alcune scene topiche: il duetto delle rivali nel II atto, la scena del Nilo, la tomba e il finale.

                            aida_firenze_7 M.Berti (Radames)


Per quanto riguarda le voci, devo assegnare la mia personale palma d'oro a Marco Berti, un tenore che passo passo è arrivato ai ruoli più impegnativi della sua gamma, dotato di una voce bella, sonora e squillante, ciò che occorre per un Radames più che plausibile. Nel IV atto e , a tratti nel III, ha aggiunto ai toni sonori e corposi anche i “colori” che Verdi, esigentissimo, richiede. Comprese le mezzevoci nella zona alta del registro, e Berti lodevolmente le ha eseguite.

Hui He è un soprano lirico che cerca di 'drammatizzare' la sua vocalità, ma con intelligenza non esagera e gioca su delicati pianissimi e belle legature. Purtroppo, giunta ai “Cieli azzurri” del III atto cala di intonazione vistosamente sul do acuto e sul sib successivo. I cattivi direbbero “non ce la fa”. Poi si riprende e regala un ottimo IV atto, superando ogni ostacolo.

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Bravissimo Ambrogio Maestri, tonante e dalla magnifica dizione scolpita, con un sol bemolle che ha riempito la sala del Comunale come facevano i cosiddetti “baritoni di una volta”.Inoltre è stato molto espressivo nei passi a mezzavoce “Ma tu Re , tu signore possente”, “Rivedrai le foreste imbalsamate”.

La D'Intino ha creato un bel personaggio, sempre molto partecipe e graffiante, ma ha la voce divisa in 3 registri: uno di petto per le note medio-gravi, uno centrale debolissimo, uno acuto ancora efficace. L'effetto complessivo non è gradevole: a tratti sembra che la cantante...parli. Però, ripeto: si è sforzata a creare un personaggio vero, sentito, e ciò è arrivato al pubblico che l'ha premiata con il maggior applauso.

IL basso Prestìa , in difficoltà sul fa acuto (“Folgore, morte”) , ha delineato un Ramfis autorevole e dalla dizione perfetta.

Molto bene la sacerdotessa della Di Tonno e il Messaggero , Saverio Fiore.

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La regìa di Ozpetek? Non c'era. Non ho visto regìa. Ho visto entrate e uscite, schieramenti a mò di cartolina illustrata o foto di gruppo, tutti a guardare pubblico e direttore, addirittura Aida sorrideva cantando “Cieli azzurri” o “Numi pietà del mio soffrir”, Radames entrava nel IV atto per il duetto con Amneris insanguinato e prostrato da torture...???!!! Ma come: allora tanto valeva tagliare il duetto successivo con Amneris e la scena del Giudizio....se era già stato giudicato colpevole!!

Assente la regìa c'erano però le stupende scene di Dante Ferretti, un vero mago. E le luci di Maurizio Calvesi, perfette. Solo queste meritavano gli applausi del pubblico.

 
UNA SCOMBINATA "WALCHIRIA" di WAGNER AL METROPOLITAN
Domenica 24 Aprile 2011 10:52

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Una Walchiria  al  Met . Verrebbe subito da chiedersi: a che punto siamo con il teatro di Wagner in un teatro  in cui è obiettivamente più semplice allestire un'Armida  o un  Comte  Ory? Siamo messi male, inutile nasconderselo. Se  a  Bayreuth la  geniale  concertazione  di  Thielemann  ha  dimostrato  che  si  può  ancora  emozionare ,  al  Met le cose  sono andate  in maniera  diametralmente  opposta.

 

Questa  la  locandina:


ConductorJames Levine
BrünnhildeDeborah Voigt
SieglindeEva Maria Westbroek
FrickaStephanie Blythe
SiegmundJonas Kaufmann
WotanBryn Terfel
HundingHans-Peter König

Levine sul podio del Metropolitan di New York punta tutto sulla forza e la veemenza della sua interpretazione ma resta una concertazione terribilmente superficiale, a tratti demotivata o addirittura equivocata in pieno (il finale, per esempio, pare la base per la giostra a Gardaland!). Il cast vocale (pur “stellare”) delude e lascia addirittura sbalorditi, per la tragica insipienza.

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Se tralasciamo le ottime intenzioni di Jonas Kaufmann come Siegmund, fraseggiatore attento e musicista meticoloso, restiamo comunque in compagnìa di una voce forse non adattissima al  ruolo  del classico Heldentenor.

Appena sufficiente la Sieglinde di Eva Maria Westbroek, sostituita poi nel III atto da una modestissima Margaret Jane Wray.Vi lascio immaginare la grande frase del III atto com'è venuta fuori.

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L'ingresso di Bryn Terfel e soprattutto di Deborah Voigt nel II atto è da ricordare come una nerissima perla: troppo chiaro e morchioso lui, afflitto da una fastidiosa “gnagnera” , addirittura imbarazzante lei nel famoso “Ho-jo-to-ho” trasformato in un traballante jodel e concluso da una risatina grottesca che fa subito pensare alla Maga Magò della “Spada nella roccia” di disneyana memoria. Ma la parte peggiore della Voigt non sono gli orridi acuti e le calate di intonazione, bensì la condizione disastrosa della voce nei centri....colà dove si canta. Una vera parodìa. Dopo 1 ora 35 minuti e 50 secondi dall'inizio del II atto abbiamo poi un'altra perla terrificante, degna di Dario Argento: “Geh' hin, Knecht!Kniee vor Fricka:meld' ihr, dass Wotans Speer gerächt, was Spott ihr schuf. -Geh'! - Geh'! “ e sul secondo “Geh!” , quando Wotan trafigge Hunding, Terfel emette lo stesso urlo lancinante che ben conoscono gli allevatori di maiali, quando sgozzano il malcapitato suino di turno. Questo NON è canto. Eppure sono certo che così facendo Terfel crede di essere un grande interprete, solo perché nessun Wotan ha mai fatto nulla del genere! E per fortuna, aggiungo.

Molto buono il gruppo delle Walchirie, anche se la Cavalcata che apre il terzo atto è un po' una baldoria nella esecuzione fin troppo allegrotta di Levine: come siamo lontani dalla favolosa concertazione di Thielemann a Bayreuth!

                                  valchiria1

Arriviamo all'Addio di Wotan, altro topos della storia operistica: Terfel pare un oste di una birreria all'Oktoberfest non certo il marmoreo Dio wagneriano. Non un colore, non un suono che non risulti nasale e a tratti persino grottesco, quasi Wotan fosse un personaggio comico. Grida “LogA! LogA!” invece di “Loge! Loge!” denunciando una pronuncia invereconda e inaccettabile per il suo livello. Naturalmente la gloriosa chiusa “Wer meines Speeres Spitze fürchtet, durchschreite das Feuer nie! “ si smoscia in una serie di urla sgangherate, fino a strozzarsi sul “nie!” ….roba da pazzi. E questo è il “grande” Terfel? Un bluff assoluto.

Un capolavoro come la Walchiria non può essere conciato per le feste in questo modo.

 

 


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